Prima lettura del 2 novembre 2019
Io lo vedrò, io stesso
Gb 19,1.23-27
"Rispondendo Giobbe prese a dire:
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro»".
La liturgia ci propone, nel giorno in cui la speranza della resurrezione è invocata come l'unica forza vera della nostra vita, una perla del libro di Giobbe.
Questo sapiente è ricordato per la sua pazienza, ma, in verità, è un campione della lotta con Dio, della preghiera che non si rassegna, che osa con fiducia e che si spinge sempre più in profondità del mistero del Signore.
Le parole del brano di oggi sono una pausa, una tregua del lungo e articolato dialogo di questo saggio credente con il Dio creatore.
"Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro"!
La fragilità delle parole, la loro volatilità, sono un mezzo fragile per l'affermazione sapiente che Giobbe sta per dire.
Una lastra di piombo, la roccia o le pergamene erano i supporti antichi su cui si scrivevano i grandi decreti destinati a durare nel tempo.
Le parole sono sempre veicoli di forza, positiva e costruttiva o negativa e distruttiva.
Strano destino: le verità preziose ed eterne sono affidate alla povertà della parola umana.
E proprio le parole sono il ponte su cui Dio e Giobbe si confrontano e si scontrano. Attraversando questo ponte di aria e di suoni Giobbe incontrerà il Dio vivente.
Per questo il suo desiderio vorrebbe che "fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia!"
Non sta dicendo frasi qualsiasi, ma quello in cui crede profondamente, la sua intimità svelata.
"Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!"
La sua incisiva professione di fede è espressa nei termini di una battaglia.
Nella lotta delle lotte, al termine di tutte le battaglie combattute di cui è fatto il dinamismo del vivere, di ogni vita, l'ultimo e l'unico a restare in piedi, ad ergersi da vincitore sulla polvere della terra, è il suo redentore!
Il "goel", redentore dell'antico Israele è il parente prossimo che vendicava e liberava dai nemici.
L'affermazione è ardita: Dio è il parente forte di Giobbe, colui che si prenderà carico di ristabilire il diritto davanti alle varie potenze che vorrebbero spadroneggiare sulla sua vita.
"Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio".
Giobbe seriamente ammalato e incamminato verso la morte, ha salda una speranza nel cuore: vedrà Dio!
È lui il suo approdo. Finita questa vita, senza più la pelle e la carne, senza le false certezze a cui si era aggrappato, vedrà Dio.
Il nostro desiderio è quello di vedere faccia a faccia l'Amato, colui sempre sentito vicino, il fedele ma invisibile, il prossimo ma non toccabile.
Giobbe crede che Dio sarà la presenza nel suo futuro, oltre la morte.
"Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro".
Ci ritorna ancora! E' una grande consolazione ripetersi che certamente lo vedrà, lui stesso, che i suoi occhi potranno riposare nel suo sguardo!
Come dicono i Salmi "gli uomini retti vedranno il suo volto" (Sal 10,7).
E' la ricompensa di chi si è nutrito della giustizia di Dio, di chi gli si è affidato.
E Giobbe, non più forte, ma più saggio, si ferma in modo contemplativo su queste parole consolanti, ripetendo con le labbra e il cuore la certezza dell'incontro.
Vedrà lui stesso il volto di Dio e non gli verrà solo riferito da altri.
I suoi occhi vedranno: assaporare questa certezza nella sofferenza è balsamo, ossigeno per il cuore e per la speranza.
Il libro di Giobbe si conclude, dopo vicende che annientano i suoi ragionamenti e quelli dei suoi amici che vogliono arginare e illudersi di conoscere la realtà totale di Dio ma espongono verità che non comprendono, con la resa totale!
Finalmente Giobbe trova pace di fronte al totalmente altro, all'inconoscibile che era stato sempre vicino, coronando il suo desiderio: “Io ti conoscevo solo per sentito dire. Ora, però, i miei occhi ti hanno veduto” (Giobbe 42,5).
Il lungo e travagliato cammino di Giobbe è un percorso che anche noi dobbiamo percorrere, aiutati dai suoi passi già tracciati, alla scoperta del vero volto di Dio, completamente diverso da quello che ci eravamo illusi di conoscere.
Giobbe, colpito da una serie insopportabile di disgrazie e di sofferenze, non accetta le spiegazioni degli amici e non abbandona la sua fede nell'esistenza di Dio. La sua grandezza sta proprio in questo: vive una forte tensione tra il dolore e la fede in Dio, accetta la sofferenza e non abbandona la fede. Egli non può accettare un Dio crudele e ingiusto, lontano. E proprio da questo suo attaccamento a Dio nonostante tutto, sgorga quel grido commovente dal suo cuore, che dalla tradizione è stato visto come una delle più antiche testimonianze sulla sopravvivenza personale al di là del disfacimento corporeo della morte.
RispondiElimina(Casa di preghiera s. Biagio)
Nella solitudine totale, Giobbe, sente che ormai i suoi giorni vengono meno, ma ha una speranza nel cuore, che lo proietta al di là del sepolcro: "So che il mio redentore è vivo... Dopo che questa mia pelle sarà distrutta...io vedrò Dio... e lo contemplerò non da straniero".
RispondiEliminaLa morte non è più l'ultima realtà dell'uomo, l'ultima realtà, per chi crede in Cristo è la vita eterna.
(Casa di preghiera s. Biagio)
Vedendo L’incomprensione dei suoi amici, ai quali è preclusa la conoscenza del mistero del povero
RispondiElimina(cfr. Sal 40,1), Giobbe affida le sue parole non più al loro cuore, ma alla scrittura sulla roccia incisa
con stilo di ferro e riempita con il piombo. Le parole resteranno là per sempre, testimoni perenni
di una situazione insoluta che grida oltre la sua stessa morte; il libro è scritto, la parola è incisa e
Dio e gli uomini l’hanno sempre davanti agli occhi. È lo stesso del grido del sangue di Abele che
grida a Dio dalla terra. Le parole di Giobbe non sono un soffio che passa, hanno una forza simile
alla roccia e al ferro. Qui giunge in forza della fede che egli ha nel suo Dio, al quale resta fedele
pur nel silenzio del suo agire denso di mistero. In senso mistico le parole di Giobbe s’incidono sulla
roccia che è il Cristo con lo stilo della passione: nella sua carne è scritta tutta la storia dell’uomo, è
incisa dalla lancia e dai chiodi come perenne memoriale a Dio. Giobbe vede che la mano di Dio
scrive nella sua carne la passione del suo Cristo; è stupito, sgomento e smarrito e grida a Dio!
(Giuseppe Ferretti)