Seconda lettura di domenica 17 maggio 2020

La speranza che è in voi
1Pt 3,15-18

"Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.
Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito".


Il brano della lettera di Pietro è un invito a vivere le varie dimensioni del mistero pasquale all'interno della nostra esistenza reale, fatta di luminosa intimità con il Signore, ma anche partecipazione alle sofferenze dovute all'annunciare e al vivere il Vangelo.

"Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori".
Bellissima indicazione che dà senso al nuovo culto inaugurato da Gesù sulla scia degli antichi profeti, un culto "in spirito e verità" (Gv 4, 23).
Il cuore, il centro più profondo di ogni persona, è il nuovo santuario della presenza di Dio ed è lì, nel segreto, che va adorato, cioè riconosciuto presente e amato gioiosamente.
I profeti avevano sognato il giorno in cui, non un tempio di pietra, ma il cuore degli uomini diventasse la dimora di colui che i cieli non possono contenere (cfr. 1Re 8, 27), ma la fede e l'amore riconoscente sì!

"Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi".
Sentire risuonare la parola "speranza" attira la nostra attenzione in questi giorni in cui il più piccolo barlume di speranza è colto al volo dalle nostre orecchie e dai nostri sguardi.
Siamo affamati di speranza e sentiamo la stessa fame in coloro che abbiamo vicino e che vogliono uscire dall'angoscia dell'indeterminatezza per il futuro ascoltando parole sicure.
Pietro ci spinge ad annunciarla a chi ce ne domanda il motivo, a chi la legge, nei nostri occhi e nei nostri gesti quando viviamo di speranza!
Tanti sono i modi di testimoniarla e chi ci sta intorno ha bisogno di attingere alla fonte della nostra speranza che è Cristo, speranza dell'umanità che non si rassegna alla morte.

"Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo".

Necessaria sottolineatura di Pietro: non vi sia nessuna presunzione o arroganza nel dare testimonianza della gioia che ci abita, della pace che il Figlio ci ha donato.
Egli non aprì mai la bocca per umiliare o per far sentire agli altri la propria superiorità.
La mitezza e l'umiltà disarmano la violenza di chi ridicolizza la fede, di chi vuole soffocare le nostre speranze.

La "dolcezza e il rispetto" sono le attenzioni di chi non si impone sul credo dell'altro, ma rispetta con amorevolezza i suoi tempi e il suo modo di arrivare alla verità.

"Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male".
È una considerazione frutto di sapienza nello Spirito.
Per Pietro la sofferenza segna comunque la nostra vita, sia che facciamo il bene degli altri, sia che non lo facciamo, illusi che inseguire il nostro tornaconto a scapito del prossimo ci porti un qualche benessere.
Sappiamo che l'apostolo ha ragione: scegliere il bene dell'altro ci può far perdere parte di noi, ci fa seguire la strada del Cristo che non è stata facile, ma segnata da incomprensione, abbandono, odio e morte.
Ma il Signore che ci attira a sé col suo amore converte i nostri cuori alla compassione e alla condivisione di quell'amore con chi ne ha bisogno.

"Perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio".
L'ingiusta sofferenza di Gesù e la sua morte ci hanno aperto la strada verso il Signore; non è quindi stato inutile il suo sacrificio!
Subendo l'ingiustizia ci ha resi giusti affinché potessimo godere della stessa intimità che lui aveva col Padre.

"Messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito".
Un versetto prezioso da ripetersi quando la morte sembra prevalere nel nostro orizzonte e la speranza si affievolisce.
La carne del Cristo è stata vivificata dallo Spirito: questa è la buona notizia per ogni carne, per ogni uomo che non ha nella tomba la sua meta.
Quello che contempliamo come la più grande opera di salvezza del Padre che ha risollevato il Figlio dal sepolcro, è anche la più grande certezza per la nostra vita, quella che ci fa partecipare qui e ora, come consanguinei del Cristo, della stessa resurrezione.
Non c'è morte che possa bloccare questo passaggio dalla carne allo Spirito, dopo che uno dei nostri, il Figlio uno, il primogenito, è stato vivificato!
La resurrezione di Gesù sia la fonte della nostra speranza, ci immerga nella consolazione che viene dalla potenza dello Spirito e ci faccia annunciatori di questa ricchezza ai fratelli che camminano con noi verso il Padre.


Commenti

  1. I cristiani sono chiamati a mantenere viva l'adorazione e il desiderio di amare Cristo, qualunque cosa accada, anzi essi devono mantenersi sempre pronti a spiegare agli altri in cosa consista la loro fede e la loro speranza. I primi cristiani venivano infatti portati in tribunale e chiamati a spiegare in cosa consistesse la loro fede.

    Essi però non sono chiamati a fare crociate e a forzare anche altri ad avere la fede che essi hanno.
    La testimonianza di Cristo va fatta con dolcezza (praytes). Questo termine viene tradotto anche con mitezza e ricorre nei brani che parlano di Gesù come "re pacifico, mite, che cavalca un asina" (Mt 21,5, che riprende con lo stesso termine la profezia di Zc 9,9 nella versione greca). La praytes è dunque il coraggio del servizio e della testimonianza con rinuncia alla violenza. Sono le opere e la buona condotta dei cristiani che devono convincere i loro nemici, non l'uso della forza.
    (Monastero Matris Domini)

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  2. Il primo versetto è il cuore di tutta la lettera, perché se da un lato sollecita i nuovi credenti, che vivono
    isolati in mezzo ad un mondo pagano che li perseguita, a testimoniare la speranza vivente di cui
    sono rivestiti e portatori in mezzo agli uomini, dall'altro, implicitamente esorta a prenderne
    coscienza. E l'unico strumento che ci consente tale presa di coscienza è la Parola di Dio, da cui
    siamo stati generati a vita nuova (1,23).
    L'approccio a questa Parola diventa, pertanto, obbligatorio per il credente più ancora che il
    celebrare l'eucarestia domenicale. Infatti senza una adeguata conoscenza e la coscienza delle realtà
    spirituali, in cui siamo avvolti e permeati, tutta la vita cristiana perde di significato e di valore,
    riducendosi a delle mere, sterili e incomprensibili regole e prescrizioni di ordine morale da
    eseguire, a cui siamo stati educati e che rispettiamo per tradizione, ma senza mai che tutto ciò si
    radichi in una adeguata e corretta motivazione, che trova la sua linfa vitale esclusivamente nella
    Parola. Per cui non solo non riusciamo a giustificarle agli altri, privandoli in tal modo di una
    testimonianza da noi dovuta a loro, ma neppure noi riusciamo a comprenderle e a giustificarle a noi
    stessi, così che ci trasciniamo penosamente in un cristianesimo che non sentiamo più nostro o, per i più coraggiosi ed onesti, benché non giustificati, viene completamente abbandonato.
    (Giovanni Leonardi)

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  3. Parlare bene è frutto di una sapienza ALTA, nel senso che sorvola, VOLA SOPRA, le bassezze umane.....
    Chi si allena, vive, frequenta il BUONO, LA PAROLA, ne è capace come conseguenza,
    AMA, RISPETTA, PREGA, SI COMPIACE,......

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  4. Siamo affamati di speranza e sentiamo la stessa fame in coloro che abbiamo vicino e che vogliono uscire dall'angoscia...

    La speranza è quella cosa piumata
    che si posa sull’anima
    canta melodie senza parole
    e non smette mai.
    (Emily Dickinson)

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